Pochi giorni fa, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha messo in atto quella che potremmo definire una preventive strategy. Dopo aver gettato sul tavolo il suo piano economico da 1.170 miliardi di dollari è passato subito all’attacco, piuttosto che aspettare una sicura e implacabile guerra di logoramento dei suoi avversari. Quest’ultimi non possono che essere numerosi, agguerriti e organizzati, se la sua candidatura, il suo piano e la sua presidenza tutta, sono votate al cambiamento.Ma se qualcuno immagina che, come vuole la logica italiana, Obama abbia sferrato un attacco principalmente agli oppositori politici, e segnatamente partitici, si sbaglia. L’obiettivo della sua dichiarazione di guerra sono le lobby, ovvero i gruppi di pressione che difendono interessi particolari, che finora hanno dominato a Washington. Partire da questa definizione essenziale, quasi scarna, ci può servire per capire al meglio il fenomeno lobbistico americano, la concezione della pressure politics che vi sta alla base e, infine, cercare di intuire quali potrebbero essere le intenzioni del neo-presidente.
Sgombriamo subito il campo da una tentazione: catalogare tutte le lobby e i lobbisti come pura incarnazione del male. Così come è assolutamente vero che esistono professionisti che si sono resi colpevoli di reati o che hanno attuato pratiche illegali, allo stesso modo non è possibile generalizzare su un fenomeno complesso, ma anche molto normato e sottoposto a rigide e (generalmente) rispettate regolamentazioni. Nessuno di noi, se non al bar tra un quotidiano sportivo e un caffé, sarebbe pronto ad affermare che tutti gli avvocati sono disonesti visto che alcuni di essi non rispettano la legge e l’etica professionale. Ugualmente, di fronte ad alcuni lobbisti americani che rischiano utilizzando la corruzione, la stragrande maggioranza di essi lavora rispettando leggi ben precise e restrittive, che arrivano a vietare la corrisposizione di regali o agevolazioni non solo ai decisori pubblici, ma anche ai relativi staff (Honest Leadership and Open Government Act, 2007). Accanto ad una precisazione sugli “strumenti” della pressione (ovvero i lobbisti) è necessario anche interrogarsi su chi attua negli Stati Uniti un’azione di pressione politica, direttamente o attraverso dei professionisti esterni. La risposta in questo caso è semplice: tutti. Bisogna senza timori superare lo stereotipo del lobbista meschino che difende solo gli interessi di ricche e potenti corporation che inquinano con il petrolio, fanno ammalare con il fumo o uccidono vendendo e diffondendo armi. Fortissime lobby, che finanziano e influenzano ampiamente tutti i decisori pubblici americani (con mezzi non soltanto economici, ma anche di carattere elettorale, come il voto), sono anche quelle della sanità (intesa sia come assicurazioni che come dipendenti), ma anche quella degli insegnanti, dei pensionati, accanto a tutti i settori industriali, che si raggruppano in associazioni di categoria o agiscono individualmente (come capita con le grandi company). In maniera più specifica, infatti, i lobbisti sono tutti coloro che portano avanti in modo professionale un’attività di pressione, solitamente rivestendo il ruolo di funzionari a tempo pieno, figurando all’interno degli organigrammi di organizzazioni, o come liberi professionisti, che vengono contattati per lavorare al servizio di singole società, ma anche (e solitamente questa figura viene sottovalutata nella realtà italiana) dei cittadini e delle loro associazioni. Da questo punto di vista va allora diviso nettamente in due il mondo della rappresentanza di interessi particolari: da un lato coloro che si mobilitano per difendere interessi economici (oggettivamente più forti in termini di risorse economiche), dall’altro quelli che si mobilitano per tutelare interessi “senza fini di lucro” (più forti in termini di risorse “umane”).
È dunque intorno a questo concetto che ruota la pressure politics americana, ovvero intorno al tentativo di far coincidere il “proprio” interesse particolare (sia esso una normativa preferibile nel proprio ambito industriale, delle sovvenzioni al settore proprio settore produttivo, ma anche l’attuazione e la tutela di diritti in ambito ambientale o civile) con l’interesse generale perseguito dalla società sotto la guida della politica. Sin dalle lezioni dei “padri fondatori” come James Madison (1751-1836), gli Usa hanno scelto una strada opposta rispetto a quella perseguita dalle democrazie di tradizione rivoluzionaria-giacobina (come la Francia e l’Italia). Negli Usa, per prevenire il rischio che un interesse particolare riesca a dominare sugli altri assoggettando completamente l’interesse generale, si è favorito il più possibile la diffusione di questi interessi particolari e tentando di normarne l’attività di pressione. Un processo che dunque richiede la più completa trasparenza per funzionare, pena la sua solidificazione attorno a “potentati”.
Solo avendo ben in mente tutto ciò è possibile capire quanto realmente detto da Obama nel suo intervento e quale sia il significato della sua imperiosa affermazione: “loro sono pronti a combattere. Il mio messaggio per loro: lo sono anche io!”. La sua mossa non è una negazione della pressure politics in toto e nemmeno una retorica denuncia delle malefatte dei “brutti, sporchi e cattivi” lobbisiti, con annessa promessa del loro totale debellamento. Il presidente si scaglia contro quei gruppi consolidati di interessi economici che vorranno ostacolare i suoi progetti e le sue promesse, chiamando a raccolta proprio altri portatori di interessi particolari: coloro che NON sono “special interests and lobbyists who are invested in the old way of doing business” (e quindi chiama a sè quei settori, come l’industria “verde”, che finora sono stati avversati perché “avversari” delle lobby prima dominanti) e gli stessi cittadini, che autonomamente compongono l’altra “metà del cielo” delle lobby, ovvero quelle non a fine di lucro, o che semplicemente si mobilitano per tutelare i propri diritti, il proprio voto, e il cui agire dal basso viene battezzato grass roots lobbying (ovvero, un lobbying che agisce come le radici dell’erba, che cresce bottom up).
In altre parole, il sogno americano continua anche in questo caso: non rinunciando alle lobby, manifestazione della libertà di espressione, ma rinnovandole. Obama intende approfittare della crisi e del forte consenso popolare per sfondare i sancta sanctorum, senza rinunciare al pluralismo.
Anche questo è Change, yes we can.
P.s. Un ringraziamento agli amici del CFP per gli spunti interessanti
venerdì 6 marzo 2009
Combattere le lobby con altre lobby
Etichette:
Attualità politica
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