Giorgio Bocca
Quando sento parlare di buoni maestri penso subito a Vittorio Foa, il migliore e il più presente negli anni dei miei buoni maestri. L'ho conosciuto leggendolo nel gennaio del '44, appena arrivato nelle Langhe dalla Val Maira con la anabasi partigiana dalla montagna alle colline del vino. Una staffetta ci portò da Torino l'ultimo quaderno di Giustizia e Libertà.
Aveva la copertina rossa e in nero la spada di Giustizia e Libertà. Era un articolo sulle alleanze orizzontali necessarie alla Resistenza, le alleanze ostiche alla nostra formazione elitaria, dei pochi ma buoni.
Quella lezione di intelligenza e di modestia ci arrivò nel momento giusto, della euforia combattentistica e della superbia. Un quadro lucido della situazione, un richiamo alla realtà. Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza rassegnazione degli altri maestri del liberal socialismo, da Gobetti a Bobbio, dai Galante Garrone ai Rosselli, dai Valiani ai Parri. Vittorio Foa ci è stato maestro di generosità e di fedeltà intellettuale, di antifascismo solidale e intransigente, il necessario ma sempre legato alla ragione.
Ho avuto come compagni di viaggio nella politica e nella cultura due intellettuali di stampo giellista: Paolo Spriano e Vittorio Foa. Il primo era diventato lo storico del Partito comunista, il secondo il dirigente della Cgil legata al Partito comunista. Li ho seguiti per anni nella burrascosa vicenda delle fazioni e delle passioni politiche e la mia stima in loro è durata e cresciuta per la loro fedeltà alla ragione, per la capacità rara di restarle fedeli se occorreva con "l'astuzia dell'intelligenza".
La prova migliore di Spriano fu la storia del Partito comunista dove tutto ciò che si doveva sapere fu indicato anche se non gridato e per Vittorio la visita del sindacato all'Unione Sovietica e la relazione critica che ne seguì, precisa anche se non gridata. Ciò che faceva di Vittorio una persona amata da tutti coloro che lo conoscevano era la sua curiosità disinteressata, la sua fedeltà a una ragione ragionevole.
Nonostante la galera fascista e le faziosità di cui soffrì anche l'antifascismo non rinunciò mai a cercar di capire i diversi, non sacrificò i sentimenti e l'ironia al disprezzo e alla condanna. Fu sempre un amico, un padre, un compagno comprensivo. Mi incantarono i suoi ultimi libri, specie i ricordi di montagna, così come mi aveva colpito il suo saggio sul quaderno di GL, il suo saper restare uno che sa ridere, come quando della politica giovanile ricordava il fastidio di sua madre per quelle montagne di Courmayeur piene di neve e di antifascisti.
Vittorio e la sua famiglia passavano le vacanze a La Salle in Valle d'Aosta. Vittorio non era più in grado di camminare ma si faceva portare in auto fino al Piccolo San Bernardo per le montagne in cui aveva camminato da ragazzo e che ricordava tutte perfettamente per nome. Anche quello un modo del suo essere fedelmente affettuoso.
Quando sento parlare di buoni maestri penso subito a Vittorio Foa, il migliore e il più presente negli anni dei miei buoni maestri. L'ho conosciuto leggendolo nel gennaio del '44, appena arrivato nelle Langhe dalla Val Maira con la anabasi partigiana dalla montagna alle colline del vino. Una staffetta ci portò da Torino l'ultimo quaderno di Giustizia e Libertà.
Aveva la copertina rossa e in nero la spada di Giustizia e Libertà. Era un articolo sulle alleanze orizzontali necessarie alla Resistenza, le alleanze ostiche alla nostra formazione elitaria, dei pochi ma buoni.
Quella lezione di intelligenza e di modestia ci arrivò nel momento giusto, della euforia combattentistica e della superbia. Un quadro lucido della situazione, un richiamo alla realtà. Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza rassegnazione degli altri maestri del liberal socialismo, da Gobetti a Bobbio, dai Galante Garrone ai Rosselli, dai Valiani ai Parri. Vittorio Foa ci è stato maestro di generosità e di fedeltà intellettuale, di antifascismo solidale e intransigente, il necessario ma sempre legato alla ragione.
Ho avuto come compagni di viaggio nella politica e nella cultura due intellettuali di stampo giellista: Paolo Spriano e Vittorio Foa. Il primo era diventato lo storico del Partito comunista, il secondo il dirigente della Cgil legata al Partito comunista. Li ho seguiti per anni nella burrascosa vicenda delle fazioni e delle passioni politiche e la mia stima in loro è durata e cresciuta per la loro fedeltà alla ragione, per la capacità rara di restarle fedeli se occorreva con "l'astuzia dell'intelligenza".
La prova migliore di Spriano fu la storia del Partito comunista dove tutto ciò che si doveva sapere fu indicato anche se non gridato e per Vittorio la visita del sindacato all'Unione Sovietica e la relazione critica che ne seguì, precisa anche se non gridata. Ciò che faceva di Vittorio una persona amata da tutti coloro che lo conoscevano era la sua curiosità disinteressata, la sua fedeltà a una ragione ragionevole.
Nonostante la galera fascista e le faziosità di cui soffrì anche l'antifascismo non rinunciò mai a cercar di capire i diversi, non sacrificò i sentimenti e l'ironia al disprezzo e alla condanna. Fu sempre un amico, un padre, un compagno comprensivo. Mi incantarono i suoi ultimi libri, specie i ricordi di montagna, così come mi aveva colpito il suo saggio sul quaderno di GL, il suo saper restare uno che sa ridere, come quando della politica giovanile ricordava il fastidio di sua madre per quelle montagne di Courmayeur piene di neve e di antifascisti.
Vittorio e la sua famiglia passavano le vacanze a La Salle in Valle d'Aosta. Vittorio non era più in grado di camminare ma si faceva portare in auto fino al Piccolo San Bernardo per le montagne in cui aveva camminato da ragazzo e che ricordava tutte perfettamente per nome. Anche quello un modo del suo essere fedelmente affettuoso.
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