Primo: l’orizzonte dell’agenda reale del paese. Discutiamo di documento – della settimana sociale dei cattolici – che rimedia a un restringimento di orizzonti. Negli ultimi anni parlare di un testo della Chiesa significava entrare in querelle su principi non negoziabili. Qui si torna ad una ampiezza di cultura di governo, a criteri per scegliere tra soluzioni diverse e a far propria come agenda quella del paese. È un terreno più esigente per tutti. Gli autori non sembrano caduti nel vizio denunciato da De Gasperi nel suo intervento alla settimana sociale del 1945 rispetto ad alcune segnate da una cultura intransigente, da «atmosfera ossigenata». Affermava De Gasperi: «Non sempre quando si scende dall’alta montagna è possibile mantenere la stessa atmosfera ossigenata e direi non sempre la stessa prospettiva può essere attuata quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione». Il testo si muove su questo crinale: ciò lo rende adatto a una discussione in una sede politica.
Secondo: il confronto col pluralismo reale, senza compartimenti stagni. Abbiamo proposto di discutere invitando tutti i parlamentari del Pd, indipendentemente dalle provenienze: testi come questo interpellano tutti. Il Pd non è un partito monoculturale. Questo è un dato. Non può però neppure essere una sovrapposizione di identità: questa è una conquista che richiede occasioni comuni di interpellanza reciproca. Ovviamente ciò retroagisce anche sulla Chiesa: il merito del documento è stato quello di un confronto aperto, che ha coinvolto varie decine di parlamentari, fin qui solo cattolici. Un metodo che è stato decisivo, al di là della bravura dei responsabili, nell’evitare l’«atmosfera ossigenata». Tuttavia il confronto più esteso è ancora più utile perché, come richiamava De Gasperi, l’atmosfera ossigenata si evita solo facendo i conti concretamente con la società pluralistica e poliarchica dentro la quale fissare una pratica di convivenza.
Terzo: le scelte sulle istituzioni hanno a che fare col bene comune. Il documento ha un primo pregio di merito, contro una cultura sostanzialistica e poco liberale, presente trasversalmente. Le scelte sul modo di chiudere la transizione sono tra le priorità del bene comune. Il federalismo solidale e la democrazia maggioritaria non fanno direttamente, ma sono indispensabili perché le cose si possano fare, perché la crisi si affronti con interventi strutturali. Guai a quelle forme di benaltrismo che vorrebbero saltare il problema istituzionale o a quelle forme di nobile conservatorismo che difendono un centralismo che ha da tempo esaurito la sua spinta propulsiva e che parlando di difesa della Costituzione confondono la validità dei principi con la storicità delle forme organizzative e, soprattutto, con la salvaguardia dei poteri di veto.
Le deformazioni della logica maggioritaria che vediamo non sono il male da sopprimere tornando indietro, sono la malattia che segnala l’esigenza di nuove regole. Questo ci provoca come partito di opposizione: abbiamo insistito a sufficienza sul fatto che la polemica sui decreti, sulle fiducie, è seria solo se accompagnata alla consapevolezza che ci debbono essere tempi certi per l’attuazione in parlamento del programma di governo? Siamo consapevoli che la nuova fisiologia non può essere una forma rinnovata di assemblearismo? Quarto: non c’è perseguimento adeguato del bene comune se si rimane in un paradigma statalista e da economia chiusa. Il documento ha il merito di spiegare che non c’è un monopolio del bene comune da parte della politica. Esso risulta da un insieme di processi che vedono coinvolti, anche in forma competitiva, vari attori. Ci sono qui alcune consapevolezze che vengono anche dal magistero recente, ma che non sembrano ancora patrimonio condiviso. È difficile, ad esempio, non segnalare che, al di là dell’iniziativa in sé dei referendum sull’acqua contro una liberalizzazione mal congegnata, essa rischia l’identificazione errata bene comune-gestione pubblica, mentre coi criteri del documento si accede alla visione di un servizio pubblico integrato, come nella scuola e nella sanità.
Così pure in relazione alla globalizzazione si ricava l’impossibilità di continuare a ragionare sul mercato del lavoro in termini di protezione del concreto posto anziché in termini di flexicurity e a capire che la gradualità nel passaggio non può significare un cammino incerto, col solo timore di scontentare la propria constituency tradizionale.
(introduzione al convegno del 21 maggio promosso da Libertà Eguale alla sede nazionale del Pd su “La cultura politica democratica e la sfida del bene comune: società e istituzioni”)
Stefano Ceccanti
Secondo: il confronto col pluralismo reale, senza compartimenti stagni. Abbiamo proposto di discutere invitando tutti i parlamentari del Pd, indipendentemente dalle provenienze: testi come questo interpellano tutti. Il Pd non è un partito monoculturale. Questo è un dato. Non può però neppure essere una sovrapposizione di identità: questa è una conquista che richiede occasioni comuni di interpellanza reciproca. Ovviamente ciò retroagisce anche sulla Chiesa: il merito del documento è stato quello di un confronto aperto, che ha coinvolto varie decine di parlamentari, fin qui solo cattolici. Un metodo che è stato decisivo, al di là della bravura dei responsabili, nell’evitare l’«atmosfera ossigenata». Tuttavia il confronto più esteso è ancora più utile perché, come richiamava De Gasperi, l’atmosfera ossigenata si evita solo facendo i conti concretamente con la società pluralistica e poliarchica dentro la quale fissare una pratica di convivenza.
Terzo: le scelte sulle istituzioni hanno a che fare col bene comune. Il documento ha un primo pregio di merito, contro una cultura sostanzialistica e poco liberale, presente trasversalmente. Le scelte sul modo di chiudere la transizione sono tra le priorità del bene comune. Il federalismo solidale e la democrazia maggioritaria non fanno direttamente, ma sono indispensabili perché le cose si possano fare, perché la crisi si affronti con interventi strutturali. Guai a quelle forme di benaltrismo che vorrebbero saltare il problema istituzionale o a quelle forme di nobile conservatorismo che difendono un centralismo che ha da tempo esaurito la sua spinta propulsiva e che parlando di difesa della Costituzione confondono la validità dei principi con la storicità delle forme organizzative e, soprattutto, con la salvaguardia dei poteri di veto.
Le deformazioni della logica maggioritaria che vediamo non sono il male da sopprimere tornando indietro, sono la malattia che segnala l’esigenza di nuove regole. Questo ci provoca come partito di opposizione: abbiamo insistito a sufficienza sul fatto che la polemica sui decreti, sulle fiducie, è seria solo se accompagnata alla consapevolezza che ci debbono essere tempi certi per l’attuazione in parlamento del programma di governo? Siamo consapevoli che la nuova fisiologia non può essere una forma rinnovata di assemblearismo? Quarto: non c’è perseguimento adeguato del bene comune se si rimane in un paradigma statalista e da economia chiusa. Il documento ha il merito di spiegare che non c’è un monopolio del bene comune da parte della politica. Esso risulta da un insieme di processi che vedono coinvolti, anche in forma competitiva, vari attori. Ci sono qui alcune consapevolezze che vengono anche dal magistero recente, ma che non sembrano ancora patrimonio condiviso. È difficile, ad esempio, non segnalare che, al di là dell’iniziativa in sé dei referendum sull’acqua contro una liberalizzazione mal congegnata, essa rischia l’identificazione errata bene comune-gestione pubblica, mentre coi criteri del documento si accede alla visione di un servizio pubblico integrato, come nella scuola e nella sanità.
Così pure in relazione alla globalizzazione si ricava l’impossibilità di continuare a ragionare sul mercato del lavoro in termini di protezione del concreto posto anziché in termini di flexicurity e a capire che la gradualità nel passaggio non può significare un cammino incerto, col solo timore di scontentare la propria constituency tradizionale.
(introduzione al convegno del 21 maggio promosso da Libertà Eguale alla sede nazionale del Pd su “La cultura politica democratica e la sfida del bene comune: società e istituzioni”)
Stefano Ceccanti
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