Bravo Francesco. La condivido completamente.
A Pisa stiamo lavorando davvero bene. Confrontandoci sui temi e poi decidendo.
Molto bene l'apertura sul senso dell'Unità d'Italia e i passaggi sulle primarie che sono fondative per il nostro Partito, ma che devono partite dalla condivisione dei programmi
RELAZIONE FRANCESCO NOCCHI
Mi sembra particolarmente significativo aprire la nostra discussione di oggi con una riflessione sulle prospettive dell’Italia, a 150 anni dalla costituzione di uno Stato unitario. Dobbiamo vivere i 150 anni dell'Unità d'Italia come una possibilità di riflessione sul Paese e sulle vere ragioni dell'Unità nazionale oggi. Questo alla luce del paradosso e dell'anomalia italiana di avere una coalizione di governo (basata sull'asse Lega-Pdl) che ha fondato gran parte del proprio consenso su una ipotesi di dissoluzione del Paese (continua nel resto del post).
Anche allora il risultato unitario fu il frutto del convergere di strategie estremamente diverse e lasciò irrisolti nodi importanti di integrazione tra le diverse aree territoriali del Paese e di costruzione di un legame organico tra le masse popolari e lo Stato. Ecco: 150 anni dopo le ragioni dello stare insieme degli Italiani appaiono deboli come non mai e il declino del Paese si presenta come un rischio per nulla teorico. I rischi sono di natura politica, culturale e sociale.
Della pericolosa regressione, del rischio declino, ne abbiamo già parlato tante volte. Anche nella mia relazione al Congresso avevo elencato dati e indicato chiavi di lettura che non ripeto. Penso al tema della tenuta degli Enti Locali. Penso a quello che si muove nella società; altre ricerche uscite nei giorni scorsi hanno di nuovo posto l'accento sulla drammaticità della condizione italiana. Faccio riferimenti ai dati del rapporto Istat “Noi Italia” e per la nostra regione ai dati Irpet. Cinque dati.
1) circa il 45% dei disoccupati è in cerca di lavoro da oltre un anno;
2) l'Italia è prima in Europa per numero di ragazzi che abbandonano gli studi e non lavorano tra i 15 e i 30 anni , mentre il tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) è pari al 25,4%;
3) le donne occupate sono solo il 46,8% contro il 68,6% degli uomini il tasso di occupazione femminile è in costante diminuzione;
4) il lavoro nero è circa il 12% del totale;
5) in Italia ogni 100 giovani ci sono 144 anziani.
Ovviamente tutto questo incide sull'effettività del principio di uguaglianzia, sulla tenuta del sistema di welfare, sul peso gravante sugli enti locali, penso ai servizi sociali e alle politiche per la casa, ecc. Tutto questo avviene nel pieno di una fase di ridefinizione dei rapporti economici a livello delle grandi aree del mondo, e si tratta di una ridefinizione che mette pesanemente a rischio l’avvenire dell’Europa e la tenuta del suo modello sociale. In questo quadro l’Italia si presenta come il Paese che, tra quelli più importanti dell’Ue, è il meno capace di valorizzare le proprie risorse umane e di dare un futuro alle proprie giovani generazioni.
Si presenta come uno dei paesi con il livello di crescita più basso, ed il confronto con la Germania ci fa capire che il nodo non sta certo nel costo del lavoro o peggio nel livello di tutela dei diritti dei lavoratori, ma sta piuttosto nella capacità di legare il lavoro e gli investimenti al sapere, alla ricerca e all’innovazione. Invece il nostro è il solo tra i Paesi avanzati che sta disinvestendo in questi campi non solo in termini economici, ma anche con discutibili scelte legislative (Ddl Gelmini) che noi consideriamo dannose e sbagliate.
L'Italia si presenta come il Paese che ha il debito pubblico più alto dell'UE (120% del Pil, dopo che il governo Prodi, solo 2 anni fa, lo aveva lasciato al 103%). Questo in un momento in cui l'Europa tende a imporre ricette drastiche per il rientro dal debito, e in cui quindi si palesa all’orizzonte, già nel 2011, la necessità di operazioni durissime, che metterebbero a rischio forse irrimediabilmente la coesione sociale del nostro Paese se non fossero condotte secondo criteri di equità. Oppure, e sarebbe ancora peggio, ci condannerebbero a situazioni di tipo greco o irlandese.
Sta qui l’importanza dell’indicazione centrale dei più recenti discorsi del segretario nazionale Bersani: solo una politica che riduca le disuguaglianze (a partire dal prelievo fiscale e dalla necessaria redistribuzione in favore del lavoro e della produzione) e che ridia fiato al reddito e ai consumi dei ceti medi e popolari può consentire all’Italia di combinare l’indispensabile risanamento finanziario con una ripresa della crescita.
Dobbiamo però farci un discorso di verità. Quindici anni di berlusconismo hanno sfibrato il tessuto connettivo del Paese. Hanno accentuato tutti gli egoismi di tipo territoriale, categoriale, corporativo, hanno depresso i sentimenti di solidarietà, il senso civico, la disponibilità a puntare sulla ricerca di soluzioni collettive dei problemi. E tutto questo non è accaduto solo nel centrodestra. Vi pare che il Paese, dal semplice cittadino alla società civile, agli intellettuali, alla classe dirigente, mostri la giusta capacità di reazione e di indignazione rispetto alla desolante situazione in cui ci hanno fatto precipitare? A me pare proprio di no...
A tutto questo si è aggiunta negli ultimi due anni, nonostante Berlusconi disponesse sulla carta della più grande maggioranza della storia della Repubblica, la totale incapacità di concentrarsi su altri problemi che non fossero quelli personali e giudiziari del premier, stravolgendo completamente l’agenda della politica e rendendola sempre più estranea alla vita e ai sentimenti della gente. Cresce soì la disaffezione, la distanza dei cittadini dalla politica. E la situazione, dopo le ultime rivelazioni, rischia di aggravarsi ulteriormente.
Che siano stati commessi reati o meno, quello che emerge dalle carte basta e avanza per dire che il presidente del Consiglio umilia l'Italia e se ne deve andare a casa. Berlusconi deve dimettersi. Facciamo bene a chiederlo con forza. E bene hanno fatto le nostre deputate a manifestare davanti a Palazzo Chigi. Le richieste di dimissioni sarebbero scontate ovunque, in ogni altra democrazia, da parte di alleati e non. E le dimissioni seguirebbero automaticamente. Ma non qui. Ormai, come ha detto un noto editorialista, la restituzione della normalità all'Italia non passa per l'attesa che questa normalità arrivi da sé. Passa piuttosto dal riprendere comportamenti normali.
Eppure, è forte l'impressione che la gran parte degli italiani assista a questo spettacolo senza un minimo scatto di indignazione e nemmeno di riflessione. Serve un sussulto di dignità da parte di tutti. L'ha spiegato bene Rosy Bindi: anziché difendersi con gli spot televisivi, se ha il senso della dignità del ruolo che ricopre, Berlusconi si presenti dai magistrati e usi le sedi proprie per dimostrarsi innocente dal punto di vista della legge e integro da quello etico. Solo così può dimostrare di essere un premier normale. Se c'è qualcosa di anormale in Italia, infatti, citando ancora Rosy Bindi, è il potente e continuo abuso di poteri e funzioni da parte del capo del governo e la sua pretesa di immunità politica e morale. Per questo sosteniamo, già a partire da qui, l'appello delle donne del Pd. E per questo raccoglieremo 10 milioni di firme per chiedere che Berlusconi se ne vada.
Nonostate tutto questo, nonostante questa situazione, la costruzione di un'alternativa credibile al berlusconismo in Italia così come alle politiche di centrodestra in Europa, stenta moltissimo a crescere. Ed è questa la regione per cui c'è in questo momento una fase (ormai lunga) di arretramento di tutte le forme socialdemocratiche in occidente. Mancano totalmente le risposte alla sfide poste dalla globalizzazione, che consistano in un rinnovamento e rilancio del modello sociale europeo, anziché nell'accettazione del suo ridimensionamento in termini meno drastici e meno perentori di quelli proposti dalla destra. È del tutto assente una presenza politica dell'Unione Europea al di là degli aspetti di controllo sulla moneta o sulla finanza.
È del tutto assente una presenza dell'Unione Europea e delle forze progressiste anche di fronte ai pericoli e alle potenzialità enormi di un mondo che si presenta ovunque in ebollizione. Dall'Afghanistan, dove ormai quasi ogni mese si devono contare i morti nel contingente italiano, che vengono accolti (lo dico con grande dolore e dispiacere) con una disattenzione e una freddezza a cui per fortuna non eravamo abituati da un’opinione pubblica che si occupa sempre di altro. Alla Tunisia e al Nordafrica, dove un movimento di giovani che esprimono la rabbia per la loro esclusione dal futuro, dalla libertà, dalla possibilità di una vita libera e dignitosa, mette in crisi regimi corrotti e dittatoriali, e dove, se l’Europa e le forze progressiste non saranno capaci di un’interlocuzione, il rischio è che prendano il sopravvento risposte di tipo integralista.
E anche il caso Fiat ci parla di questo. Se vogliamo affrontarlo correttamente, il caso Fiat pone soprattutto a noi perché la destra non lo vive come tale, il nucleo più scottante dei problemi, quello che verte sul problema del rapporto tra politica (democratica) ed economia. Lo scrive bene Carlo Galli su Repubblica, lo ha scritto anche Pietro Ichino: questo per noi è un passaggio epocale. “E' il momento – ha scritto Galli – in cui nel tessuto della nostra democrazia, fa irruzione la globalizzazione: che si propone come l'aperto predominio delle logiche di mercato sulle logiche politiche democratiche”. È il tema, in sintesi, della globalizzazione e del rapporto tra lavoro e democrazia ed è chiaro che in epoca di globalizzazione esiste un problema di produttività a cui neppure la sinistra e le forze democratiche possono sottrarsi. Ma se il tema della produttività non si coniuga con quello della democrazia, il solo risultato è una regressione dei diritti.
In Germania, alla Volkswagen il tema se lo sono posto e lo hanno affrontato con un accordo che rilancia la produttività ma distribuisce i sacrifici, dai manager agli operai, garantendo occupazione, buoni salari e buoni prodotti. In Italia si è imposto un modello autoritario di relazioni sindacali, basato sulla scelta tra “prendere e lasciare”, tra accettare un progetto unilateralmente predisposto (che avrebbe tenuto aperto lo stabilimento di Mirafiori) e rifiutarlo (assumendosi la responsabilità di non dare un futuro all'industria dell'auto in Italia). Questo passaggio trasformerà le relazioni sociali per come le abbiamo conosciute finora. Perché scardina la strategia della concertazione inaugurata nel 1993 con Ciampi e la sostituisce con un modello autoritario, che non a caso ha effetti non solo nei rapporti tra Fiat e sindacati, ma anche tra Fiat e Confindustria.
Perché cancella l'idea del controllo sociale sull'impresa. Perché indebolisce il modello contrattuale basato sull'articolazione tra Contratto nazionale e Contratto di II° livello. E perché chiama in causa il ruolo della politica che non viene più chiamata a dare equilibrio ad una situazione complessa, a gestire le contingenze e le crisi guardando alla molteplicità degli interessi in gioco, quanto piuttosto a schierarsi, a prendere o lasciare, ad appoggiare o rifiutare una strategia, una proposta preconfezionata in nome della potenza inesorabile della globalizzazione.
Il Governo è ben contento, non ha avuto difficoltà: nessun capo di Stato o di governo al mondo avrebbe detto che la più grande azienda del Paese bene faceva a spostarsi all'estero. Berlusconi lo ha fatto in modo irresponsabile senza curarsi del danno agli interessi nazionali. E da quando è stata proposta Fabbrica Italia, si è rifiutato di aprire su questo un confronto. Anzi: prima ha negato alla Fiat quegli incentivi che ogni altro Paese del mondo ha garantito all'industria nazionale dell'auto in epoca di crisi globale. Poi ha evitato di porre in essere qualunque forma di politica industriale che tutelasse i settori strategici dell'economia nazionale di fronte alla crisi. Ha ovviamente rifiutato di svolgere una funzione di mediatore di interessi, sostenendo la Fiat per ricavare un qualche guadagno dall'isolamento della Fiom e dalle difficoltà di Confindustria.
Tutto questo conferma drammaticamente che l'economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, “sguarnita della minima tutela politica”, la contesa globale. E il peso di questa scelta, con tutto quello che significa in questo contesto globale, l'abbiamo lasciato sostanzialmente sulle spalle dei 5.000 lavoratori dello stabilimento di Mirafiori. Noi dobbiamo rispettare il voto del referendum e ringraziare quei lavoratori, tutti, quelli del sì e quelli del no. Perché con il voto di Mirafiori si sono coraggiosamente assunti tutto il peso della sopravvivenza e del rilancio dell'azienda e dello stabilimento. L'accordo, come testimonia la maggioranza finale risicata, è stato giudicato irrinunciabile ma non positivo, soprattutto là dove dispiegava pesantemente i propri effetti.
Questo risultato tiene aperto il confronto su tre punti: gli investimenti, le condizioni di lavoro e la rappresentanza (per cui è davvero necessaria una legge). I temi sono questi e il Pd deve fare la sua parte anche per aiutare le parti sociali a riallacciare un filo unitario sui nodi che il referendum lascia aperti. Con la vittoria del sì, si apre una pagina nuova che deve chiarire (finora non lo si è fatto) l'elemento di scambio tra la crescita dell'utilizzo degli impianti e della produttività del lavoro e la certezza degli investimenti (visto che su 18,8 miliardi di euro del Piano Fabbrica Italia conosciamo il destino soltanto di 2,4), dei nuovi modelli da produrre, dell'occupazione da garantire e delle scelte di non delocalizzare.
Io non so quale sarà l'effetto di questo ulteriore passaggio della vicenda Fiat sul complesso delle relazioni industriali del Paese. Vedo però che anche nel nostro territorio abbiamo un fronte, una grande questione ancora aperta (parlo della Piaggio) sulla quale dobbiamo proseguire nel percorso che ci siamo dati, anche dopo il Consiglio comunale aperto svoltosi a Pontedera, e che riguarda il tema degli investimenti, del Piano industriale, del ruolo degli stabilimenti di Pontedera, dei nuovi modelli, della centralità delle meccaniche e dell'opportunità di un investimento nella logistica.
Su questa vicenda si deve sentire il peso della politica e delle istituzioni, perché essa chiama in causa tutto il nostro territorio e che non può più essere lasciato solo sulle spalle delle organizzazioni sindacali, che hanno ripreso un positivo rapporto unitario, o peggio dei lavoratori. Io credo che molto rapidamente dobbiamo ricostituire il circolo del Pd Piaggio e indotto come luogo di confronto ed elaborazione e credo anche che si debba aprire un confronto con l'azienda in tempi rapidi.
La discussione sulla Fiat ci ripropone il tema del partito: noi siamo da tempo l’unica forza che cerca di mettere al centro dell’agenda politica il fisco, i problemi del lavoro e dell’impresa, le politiche sociali, il sapere. E non siamo mai riusciti in questi due anni a bucare il muro di gomma mediatico che Berlusconi è riuscito a creare. Indubbiamente scontiamo una difficoltà di sintesi al nostro interno che fa sì che qualunque posizione assumiamo venga sommersa dal rumore delle posizioni diverse e contrastanti che vengono immediatamente espresse dall’interno stesso del nostro partito.
Ad esempio sulla questione Fiat si è sviluppato un dibattito, come è normale che avvenga. Però quello che invece credo non sia normale è il fatto di non saper arrivare una posizione di sintesi riconosciuta. Su un tema come questo la Direzione nazionale deve esprimersi definendo il proprio giudizio sui contenuti dell'intesa, sul rispetto dell'esito del referendum e sulle cose da fare ora. Invece nel Pd non funziona così su quasi tutto. Ciascun esponente si sente autorizzato ad esprimere le proprie opinioni al di fuori delle sedi appropriate dimenticando la necessità di trovare sempre e comunque una sintesi.
In queste settimane (lo ricordava Cesare Damiano) abbiamo assistito alle più svariate prese di posizione: una richiesta di congresso anticipato, poi smentita; la convocazione di una Direzione “parallela”, promossa dai cosiddetti rottamatori; l'annuncio preventivo di un voto in dissenso rispetto al Partito sul tema del biotestamento prima ancora che se ne discutesse (Beppe Fioroni). Ma come pensiamo di andare avanti così? È una follia.
Io vedo un unico modo per uscire da questa situazione. Anzitutto valorizzare di più le esperienze del territorio, penso agli amministratori locali, per rompere quel circuito impazzito e ripiegato su sé stesso che c'è nel nostro gruppo dirigente nazionale. E poi valorizzare fino in fondo il ruolo degli organismi di discussione e di decisione istituzionalmente previsti, e cioè degli organi dirigenti del nostro partito a tutti i livelli. Questi organi devono diventare per davvero le sedi in cui si discute, senza temere il pluralismo delle posizioni, e, al tempo stesso, le sedi in cui si assumono delle decisioni, unitariamente, quando si riesce a costruire una sintesi, oppure a maggioranza, che è comunque meglio di quell’inaccettabile indistinzione che deriva dalla costante ricerca di mediazioni al minimo comune denominatore. E le posizioni che restano in minoranza avranno quella tutela che lo statuto riconosce alle minoranze, ma saranno chiaramente identificabili come tali.
La sintesi è essenziale per l'azione politica di un partito pluralista ma richiede risponibilità al confronto. “Il Pd – cito di nuovo Damiano – non deve tacere il confronto, anzi lo deve ricercare. Lo scontro è benefico se porta ad una sintesi di maggioranza da tutti riconosciuta come vincolante”. Il nemico è l'ambiguità, l'indeterminatezza, la fumosità delle schermaglie, il falso unanimismo di facciata. Tutto questo opacizza il nostro profilo. Tra l'altro, sia a livello nazionale che locale, rispetto agli schieramenti congressuali abbiamo fatto un grosso e positivo passo in avanti che consenta una vera discussione di merito e non astratta. Noi abbiamo bisogno di impegnarci in una riflessione che abbia al centro non formule astratte ma temi concreti: prima della discussione sulle alleanze (estenuante quanto inutile) è necessaria quella sui contenuti. Su questo punto io credo che oltre all'importante lavoro tematico che stiamo facendo con le Assemblee nazionali (che stiamo però socializzando poco...) si dovranno istituzionalizzare e praticare anche, su alcuni temi (penso alla questione del testamento biologico) forme nuove di partecipazione come ad esempio il referendum tra gli iscritti.
Per quanto riguarda le primarie, credo che anche qui dobbiamo riflettere. La discussione sul farle o non farle mi sembra sciocca: sono nello statuto, le abbiamo inventate noi. Però dobbiamo riformarle per preservarle. Dobbiamo riflettere sulle primarie di coalizione e su come il Pd ci partecipa: non farle diventare un terreno per incursioni altrui nel nostro campo; personalmente penso che in primarie di questo tipo il candidato del Pd possa essere uno e uno solo e debba essere il frutto di una discussione vera e di forme di verifica anche estremamente impegnative tra gli iscritti.
L'esistenza delle primarie non può però diventare, dentro il partito, l'alibi per azzerare il confronto e la discussione politica e la possibilità di ricercare candidature unitarie. Non possiamo non vedere come le primarie, non solo a livello nazionale, rischiano di degenerare diventando sempre di più un fine utile solo per l'affermazione dei singoli anziché uno strumento di democrazia. Credo che con questa legge elettorale la questione delle primarie per la scelta dei candidati al Parlamento sia ineludibile, perché solo così avremo parlamentari legati al territorio e davvero rappresentativi; questo chiama in causa inoltre l'impellenza di un cambiamento della legge elettorale regionale.
La situazione politica nazionale ci impone una scelta nettissima di strategia: se è vero che quella dell’Italia è una condizione di emergenza; se è vero che i fatti tanto sconvolgenti quanto sconfortanti di questi giorni sembrano dimostrare ulteriormente che non è più possibile mantenere un’agenda politica centrata sui problemi di Berlusconi e totalmente cieca di fonte ai problemi dell’Italia; se è vero che Berlusconi non è un avversario qualsiasi, ma propone un modello di potere plebiscitario che inquina la qualità della nostra democrazia: se tutto questo è vero, dobbiamo prenderne atto e non rispondere con l’ordinaria amministrazione.
È ordinaria amministrazione continuare a dividerci tra chi preferisce alleanze a sinistra e chi guarda al centro. Anche perché entrambe le prospettive sono inadeguate ai compiti che ci si propongono e ai rischi che corriamo. Sono pienamente possibili sia scenari di elezione anticipata, di cui non dobbiamo avere alcun timore, sia soluzioni transitorie (certo più difficili dopo il voto del 14) che puntino ad un allargamento della maggioranza alle forze del Terzo Polo: questa soluzione è possibile però solo se Berlusconi si fa da parte e non è una variabile di poco conto. In ogni caso noi dovremo riuscire a presentarci come portatori degli interessi nazionali, a giocare parallelamente con intelligenza, proprio perché lo spazio di iniziativa politica e parlamentare per le opposizioni è infinitamente maggiore dopo il voto di dicembre sulla sfiducia.
Da oggi intanto dobbiamo rispondere a quel richiamo alla mobilitazione fatto dal segretario Bersani: 10.000 gazebo, 10 milioni di firme per dire basta, per chiedergli di andarsene. Sono maturi i tempi per chiamare i cittadini e le forze politiche ad una proposta di unità nazionale: dobbiamo farla, abbiamo il dovere di farla, e di vedere chi ci sta. Non credo che questa proposta sia in contrasto con la strategia del cosiddetto “Nuovo Ulivo”, perché, a mio avviso, noi dovremmo prima costruire una solida alleanza di centrosinistra e dopo cercare di allargarla a quelle forze politiche e sociali che vogliono uscire dall'emergenza democratica. Partendo da temi concreti e da un'operazione di chiarezza con i nostro alleati naturali, Italia dei Valori e Sel.
Prima di qualsiasi discorso sulla leadership e sul modo di sceglierla bisogna sciogliere un nodo di strategia. Perché dal riconoscimento del carattere di emergenza della situazione discendono infatti precise conseguenze sulla dimensione e la natura degli schieramenti che si intendono costruire. E siccome noi siamo un soggetto politico e non un campo aperto alle incursioni e alle conquiste di chicchessia, prima si concorda con noi un programma, su questa base si costruisce una coalizione, poi si discute della leadership, da selezionare anche eventualmente con lo strumento delle primarie. Questo vale a livello nazionale come a livello locale: è inaccettabile pensare che prima si facciano le primarie, poi, a seconda di chi vince, si decide se coalizzarsi o meno e poi chi vince detta le condizioni del programma e della coalizione.
Il programma deve per forza essere innovativo. Essere oggi la forza politica che mette al centro il tema dell’eguaglianza vuol dire affrontare i temi della riforma del welfare, degli ammortizzatori sociali, delle politiche per il lavoro e della contrattazione in termini che non possono assolutamente essere la ripetizione di quello che c’era scritto nel programma dell’Unione. Vendola (figuriamoci Di Pietro) non dice nulla sui nodi programmatici, non per incapacità, ma perché se dicesse qualcosa, o perderebbe metà dei suoi fans o si precluderebbe la possibilità di qualsiasi alleanza.
Per questo si limita a ripetere in modo stanco la propria preghiera laica basata sull'invocazione delle elezioni anticipate e delle primarie come soluzione miracolistica ai problemi degli italiani. Qui c'è un punto che riguarda anche le elezioni amministrative nella nostra provincia. Noi dobbiamo prima di tutto pretendere chiarezza sui programmi, coerenza per la definizione delle alleanze con le linee strategiche di governo che ci siamo dati in questi anni, e un giudizio chiaro sulle esperienze amministrative uscenti: ci vuole un giudizio politico netto e non l'idea di un eterno nuovo inizio.
Chiedo ai segretari delle Unioni comunali davvero grande attenzione su questo, così come chiedo a tutti, a prescindere dalla scelta fatta localmente di svolgere le primarie o meno, grande solidarietà ed uno spirito profondamente unitario; nei Comuni dove ancora siamo più indietro nella definizione delle candidature chiedo uno sforzo a ricercare soluzioni unitarie privilegiando soluzioni condivise, senza arrendersi in modo notarile alla inesorabilità delle primarie.
Questo è proprio il momento in cui si deve investire al massimo sul ruolo e l’identità del Partito Democratico, sul suo profilo di forza non moderata ma riformista, sul suo ruolo di cerniera tra la sinistra e una più ampia area di forze politiche e di elettori interessati alla ripresa della crescita e alla salvaguardia della condizione di democrazia occidentale, sulla sua capacità di rappresentare, insieme al mondo del lavoro in tutte le sue componenti, settori ampi del mondo dell’impresa, delle professioni e della cultura.
Senza alcuna pretesa di autosufficienza, ma anche senza alcuna subalternità, perché è con noi, che siamo la forza più grande dell’opposizione, che si deve discutere delle condizioni politiche e programmatiche di un'alternativa, e senza imporre, o accettare insuperabili preclusioni e giochi di reciproca esclusione.
Per questo anche a Pisa proponiamo due grandi terreni di iniziativa e di lavoro a tutte le nostre organizzazioni.
Primo: una prospettiva di crescita fondata sulla qualità e l’innovazione delle produzioni, sull’equità e l’inclusione sociale, sull’affermazione dei diritti dei lavoratori anche nelle nuove condizioni di mercato, cercando di essere noi il soggetto che riesce a tenere insieme il mondo del lavoro e dell'impresa, che sono le forze davvero produttive. Il primo appuntamento è la Conferenza regionale delle lavoratrici e dei lavoratori di Pontedera del 5 febbraio.
Il secondo punto d'iniziativa è una politica per dare rappresentanza e inclusione sociale a una generazione che oggi è esclusa da tutti i meccanismi di protezione sociale e che manifesta in varie forme un'insofferenza e un disagio profondo cui noi dobbiamo dare uno sbocco politico. Forti del monito di Napolitano nel messaggio di fine anno e dell'intuizione che la Regione ha avuto con il cosiddetto “Progetto Giovani”. Su questo c'è bisogno di una iniziativa forte insieme ai Giovani Democratici.
Voglio in ultimo soffermarmi sulla situazione di grande difficoltà degli Enti locali: la legge Finanziaria e poi il Milleproroghe hanno ulteriormente aggravato una condizione di difficoltà che già avevamo denunciato al Congresso; c'è difficoltà a chiudere i bilanci dei Comuni, strozzati dal Governo a chiacchiere più federalista della storia, difficoltà con cui si inquina il rapporto tra sindaci ed elettori esponendo i primi alle pressioni crescenti delle proprie collettività, lasciandoli però privi di strumenti di intervento.
Su questo abbiamo lavorato molto, sia in termini di iniziativa pubblica che di discussione interna, sulle finalità che ci poniamo e le scelte dolorose che siamo chiamati a compiere: è deludente che qualcuno pensi di aggirare questi problemi instaurando un rapporto privilegiato con il presidente Berlusconi, eludendo il tema politico più generale e una questione minima di solidarietà.
Stiamo cominciando con il presidente ed il gruppo una discussione sul bilancio della Provincia, messa anch'essa a dura prova da tagli pesanti e da una politica di investimenti forte che abbiamo fatto negli anni; in condizioni come queste è necessario, come ha fatto la Regione, fare scelte in cui sia chiara la strategia di fondo, proprio perché le risorse sono sempre meno.
Nel gruppo abbiamo cominciato a discutere di alcune priorità:
1)Viabilità, infrastrutture, salvaguardia del territorio,
2)Edilizia scolastica,
3)Cultura e teatri,
4)Sviluppo economico e lavoro.
Il presidente si è giustamente posto l'obiettivo di trovare risorse nuove, attraverso la lotta all'evasione e la valorizzazione del patrimonio; penso che si debbano anche cercare risparmi negli Enti strumentali e nella possibilità di valorizzazione del personale interno: seguendo la linea di sobrietà e rigore tracciata dalla Regione Toscana.
Credo che si debba anche proseguire sulla strada delle gestioni associate e giocare la sfida delle Unioni dei Comuni cominciando a ragionarne seriamente nelle diverse zone della Provincia, anche alla luce delle scelte fatte dalla Regione con il bilancio.
A noi non deve far paura questa sfida, così come quella di cui si sta discutendo da un po' di una maggiore integrazione tra gli scali aeroportuali toscani.
Primo: perché la mole di investimenti messi in campo da Regione, Enti locali e dalla stessa SAT dimostrano nei fatti la forza della nostra iniziativa ed il sostegno concreto allo scalo pisano.
Secondo: perché le scelte dell'attuale management e del Patto di Sindacato che governano Sat hanno portato Pisa lì dove è oggi: una realtà da oltre 4 milioni di passeggeri, capace di accumulare un enorme vantaggio competitivo che peserà nei passaggi successivi e che è confermato dal Piano di investimenti del Galilei.
Terzo: l'adeguamento di Peretola è un'esigenza naturale, dobbiamo evitare che uno scalo che con quell'adeguamento acquisirebbe maggiore competitività, costruisca (seguendo l'interesse dei soci privati) una più stretta alleanza con Bologna spostando il baricentro del traffico aereo.
Quarto: la scelta dell'integrazione è quella che può garantire allo scalo pisano e al nostro territorio un futuro nel lungo periodo ed è una sfida che dobbiamo raccogliere perché ha una sua logica ed una sua forza industriale e non può essere affrontata con logiche di campanile. Di questo, naturalmente, continueremo a discuterne anche nella Direzione provinciale.
Noi dobbiamo essere quell'avanguardia democratica di cui oggi il Paese ha bisogno; dobbiamo lavorare per il Paese facendo le cose ho indicato e lavorare su di noi:
1) Sul tesseramento per l'anno 2011 e su una campagna seria di autofinanziamento;
2) Sulla convocazione di assemblee degli iscritti dei Circoli e degli elettori sulla situazione politica nazionale e su quelle priorità che ho provato a indicare;
3) Sulla costituzione della Conferenza delle donne;
4) Sul rafforzamento e il radicamento dei Giovani Democratici;
5) Sulla valorizzazione dei nostri Circoli e sulla costituzione di specifici Forum tematici;
6) Sulla mobilitazione proposta in modo straordinario dal segretario nazionale nelle prossime settimane.
Concludo ringraziandovi, ringraziando i componenti dell'Esecutivo provinciale e i segretari delle Unioni comunali per questi primi mesi di lavoro insieme
Anche allora il risultato unitario fu il frutto del convergere di strategie estremamente diverse e lasciò irrisolti nodi importanti di integrazione tra le diverse aree territoriali del Paese e di costruzione di un legame organico tra le masse popolari e lo Stato. Ecco: 150 anni dopo le ragioni dello stare insieme degli Italiani appaiono deboli come non mai e il declino del Paese si presenta come un rischio per nulla teorico. I rischi sono di natura politica, culturale e sociale.
Della pericolosa regressione, del rischio declino, ne abbiamo già parlato tante volte. Anche nella mia relazione al Congresso avevo elencato dati e indicato chiavi di lettura che non ripeto. Penso al tema della tenuta degli Enti Locali. Penso a quello che si muove nella società; altre ricerche uscite nei giorni scorsi hanno di nuovo posto l'accento sulla drammaticità della condizione italiana. Faccio riferimenti ai dati del rapporto Istat “Noi Italia” e per la nostra regione ai dati Irpet. Cinque dati.
1) circa il 45% dei disoccupati è in cerca di lavoro da oltre un anno;
2) l'Italia è prima in Europa per numero di ragazzi che abbandonano gli studi e non lavorano tra i 15 e i 30 anni , mentre il tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) è pari al 25,4%;
3) le donne occupate sono solo il 46,8% contro il 68,6% degli uomini il tasso di occupazione femminile è in costante diminuzione;
4) il lavoro nero è circa il 12% del totale;
5) in Italia ogni 100 giovani ci sono 144 anziani.
Ovviamente tutto questo incide sull'effettività del principio di uguaglianzia, sulla tenuta del sistema di welfare, sul peso gravante sugli enti locali, penso ai servizi sociali e alle politiche per la casa, ecc. Tutto questo avviene nel pieno di una fase di ridefinizione dei rapporti economici a livello delle grandi aree del mondo, e si tratta di una ridefinizione che mette pesanemente a rischio l’avvenire dell’Europa e la tenuta del suo modello sociale. In questo quadro l’Italia si presenta come il Paese che, tra quelli più importanti dell’Ue, è il meno capace di valorizzare le proprie risorse umane e di dare un futuro alle proprie giovani generazioni.
Si presenta come uno dei paesi con il livello di crescita più basso, ed il confronto con la Germania ci fa capire che il nodo non sta certo nel costo del lavoro o peggio nel livello di tutela dei diritti dei lavoratori, ma sta piuttosto nella capacità di legare il lavoro e gli investimenti al sapere, alla ricerca e all’innovazione. Invece il nostro è il solo tra i Paesi avanzati che sta disinvestendo in questi campi non solo in termini economici, ma anche con discutibili scelte legislative (Ddl Gelmini) che noi consideriamo dannose e sbagliate.
L'Italia si presenta come il Paese che ha il debito pubblico più alto dell'UE (120% del Pil, dopo che il governo Prodi, solo 2 anni fa, lo aveva lasciato al 103%). Questo in un momento in cui l'Europa tende a imporre ricette drastiche per il rientro dal debito, e in cui quindi si palesa all’orizzonte, già nel 2011, la necessità di operazioni durissime, che metterebbero a rischio forse irrimediabilmente la coesione sociale del nostro Paese se non fossero condotte secondo criteri di equità. Oppure, e sarebbe ancora peggio, ci condannerebbero a situazioni di tipo greco o irlandese.
Sta qui l’importanza dell’indicazione centrale dei più recenti discorsi del segretario nazionale Bersani: solo una politica che riduca le disuguaglianze (a partire dal prelievo fiscale e dalla necessaria redistribuzione in favore del lavoro e della produzione) e che ridia fiato al reddito e ai consumi dei ceti medi e popolari può consentire all’Italia di combinare l’indispensabile risanamento finanziario con una ripresa della crescita.
Dobbiamo però farci un discorso di verità. Quindici anni di berlusconismo hanno sfibrato il tessuto connettivo del Paese. Hanno accentuato tutti gli egoismi di tipo territoriale, categoriale, corporativo, hanno depresso i sentimenti di solidarietà, il senso civico, la disponibilità a puntare sulla ricerca di soluzioni collettive dei problemi. E tutto questo non è accaduto solo nel centrodestra. Vi pare che il Paese, dal semplice cittadino alla società civile, agli intellettuali, alla classe dirigente, mostri la giusta capacità di reazione e di indignazione rispetto alla desolante situazione in cui ci hanno fatto precipitare? A me pare proprio di no...
A tutto questo si è aggiunta negli ultimi due anni, nonostante Berlusconi disponesse sulla carta della più grande maggioranza della storia della Repubblica, la totale incapacità di concentrarsi su altri problemi che non fossero quelli personali e giudiziari del premier, stravolgendo completamente l’agenda della politica e rendendola sempre più estranea alla vita e ai sentimenti della gente. Cresce soì la disaffezione, la distanza dei cittadini dalla politica. E la situazione, dopo le ultime rivelazioni, rischia di aggravarsi ulteriormente.
Che siano stati commessi reati o meno, quello che emerge dalle carte basta e avanza per dire che il presidente del Consiglio umilia l'Italia e se ne deve andare a casa. Berlusconi deve dimettersi. Facciamo bene a chiederlo con forza. E bene hanno fatto le nostre deputate a manifestare davanti a Palazzo Chigi. Le richieste di dimissioni sarebbero scontate ovunque, in ogni altra democrazia, da parte di alleati e non. E le dimissioni seguirebbero automaticamente. Ma non qui. Ormai, come ha detto un noto editorialista, la restituzione della normalità all'Italia non passa per l'attesa che questa normalità arrivi da sé. Passa piuttosto dal riprendere comportamenti normali.
Eppure, è forte l'impressione che la gran parte degli italiani assista a questo spettacolo senza un minimo scatto di indignazione e nemmeno di riflessione. Serve un sussulto di dignità da parte di tutti. L'ha spiegato bene Rosy Bindi: anziché difendersi con gli spot televisivi, se ha il senso della dignità del ruolo che ricopre, Berlusconi si presenti dai magistrati e usi le sedi proprie per dimostrarsi innocente dal punto di vista della legge e integro da quello etico. Solo così può dimostrare di essere un premier normale. Se c'è qualcosa di anormale in Italia, infatti, citando ancora Rosy Bindi, è il potente e continuo abuso di poteri e funzioni da parte del capo del governo e la sua pretesa di immunità politica e morale. Per questo sosteniamo, già a partire da qui, l'appello delle donne del Pd. E per questo raccoglieremo 10 milioni di firme per chiedere che Berlusconi se ne vada.
Nonostate tutto questo, nonostante questa situazione, la costruzione di un'alternativa credibile al berlusconismo in Italia così come alle politiche di centrodestra in Europa, stenta moltissimo a crescere. Ed è questa la regione per cui c'è in questo momento una fase (ormai lunga) di arretramento di tutte le forme socialdemocratiche in occidente. Mancano totalmente le risposte alla sfide poste dalla globalizzazione, che consistano in un rinnovamento e rilancio del modello sociale europeo, anziché nell'accettazione del suo ridimensionamento in termini meno drastici e meno perentori di quelli proposti dalla destra. È del tutto assente una presenza politica dell'Unione Europea al di là degli aspetti di controllo sulla moneta o sulla finanza.
È del tutto assente una presenza dell'Unione Europea e delle forze progressiste anche di fronte ai pericoli e alle potenzialità enormi di un mondo che si presenta ovunque in ebollizione. Dall'Afghanistan, dove ormai quasi ogni mese si devono contare i morti nel contingente italiano, che vengono accolti (lo dico con grande dolore e dispiacere) con una disattenzione e una freddezza a cui per fortuna non eravamo abituati da un’opinione pubblica che si occupa sempre di altro. Alla Tunisia e al Nordafrica, dove un movimento di giovani che esprimono la rabbia per la loro esclusione dal futuro, dalla libertà, dalla possibilità di una vita libera e dignitosa, mette in crisi regimi corrotti e dittatoriali, e dove, se l’Europa e le forze progressiste non saranno capaci di un’interlocuzione, il rischio è che prendano il sopravvento risposte di tipo integralista.
E anche il caso Fiat ci parla di questo. Se vogliamo affrontarlo correttamente, il caso Fiat pone soprattutto a noi perché la destra non lo vive come tale, il nucleo più scottante dei problemi, quello che verte sul problema del rapporto tra politica (democratica) ed economia. Lo scrive bene Carlo Galli su Repubblica, lo ha scritto anche Pietro Ichino: questo per noi è un passaggio epocale. “E' il momento – ha scritto Galli – in cui nel tessuto della nostra democrazia, fa irruzione la globalizzazione: che si propone come l'aperto predominio delle logiche di mercato sulle logiche politiche democratiche”. È il tema, in sintesi, della globalizzazione e del rapporto tra lavoro e democrazia ed è chiaro che in epoca di globalizzazione esiste un problema di produttività a cui neppure la sinistra e le forze democratiche possono sottrarsi. Ma se il tema della produttività non si coniuga con quello della democrazia, il solo risultato è una regressione dei diritti.
In Germania, alla Volkswagen il tema se lo sono posto e lo hanno affrontato con un accordo che rilancia la produttività ma distribuisce i sacrifici, dai manager agli operai, garantendo occupazione, buoni salari e buoni prodotti. In Italia si è imposto un modello autoritario di relazioni sindacali, basato sulla scelta tra “prendere e lasciare”, tra accettare un progetto unilateralmente predisposto (che avrebbe tenuto aperto lo stabilimento di Mirafiori) e rifiutarlo (assumendosi la responsabilità di non dare un futuro all'industria dell'auto in Italia). Questo passaggio trasformerà le relazioni sociali per come le abbiamo conosciute finora. Perché scardina la strategia della concertazione inaugurata nel 1993 con Ciampi e la sostituisce con un modello autoritario, che non a caso ha effetti non solo nei rapporti tra Fiat e sindacati, ma anche tra Fiat e Confindustria.
Perché cancella l'idea del controllo sociale sull'impresa. Perché indebolisce il modello contrattuale basato sull'articolazione tra Contratto nazionale e Contratto di II° livello. E perché chiama in causa il ruolo della politica che non viene più chiamata a dare equilibrio ad una situazione complessa, a gestire le contingenze e le crisi guardando alla molteplicità degli interessi in gioco, quanto piuttosto a schierarsi, a prendere o lasciare, ad appoggiare o rifiutare una strategia, una proposta preconfezionata in nome della potenza inesorabile della globalizzazione.
Il Governo è ben contento, non ha avuto difficoltà: nessun capo di Stato o di governo al mondo avrebbe detto che la più grande azienda del Paese bene faceva a spostarsi all'estero. Berlusconi lo ha fatto in modo irresponsabile senza curarsi del danno agli interessi nazionali. E da quando è stata proposta Fabbrica Italia, si è rifiutato di aprire su questo un confronto. Anzi: prima ha negato alla Fiat quegli incentivi che ogni altro Paese del mondo ha garantito all'industria nazionale dell'auto in epoca di crisi globale. Poi ha evitato di porre in essere qualunque forma di politica industriale che tutelasse i settori strategici dell'economia nazionale di fronte alla crisi. Ha ovviamente rifiutato di svolgere una funzione di mediatore di interessi, sostenendo la Fiat per ricavare un qualche guadagno dall'isolamento della Fiom e dalle difficoltà di Confindustria.
Tutto questo conferma drammaticamente che l'economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, “sguarnita della minima tutela politica”, la contesa globale. E il peso di questa scelta, con tutto quello che significa in questo contesto globale, l'abbiamo lasciato sostanzialmente sulle spalle dei 5.000 lavoratori dello stabilimento di Mirafiori. Noi dobbiamo rispettare il voto del referendum e ringraziare quei lavoratori, tutti, quelli del sì e quelli del no. Perché con il voto di Mirafiori si sono coraggiosamente assunti tutto il peso della sopravvivenza e del rilancio dell'azienda e dello stabilimento. L'accordo, come testimonia la maggioranza finale risicata, è stato giudicato irrinunciabile ma non positivo, soprattutto là dove dispiegava pesantemente i propri effetti.
Questo risultato tiene aperto il confronto su tre punti: gli investimenti, le condizioni di lavoro e la rappresentanza (per cui è davvero necessaria una legge). I temi sono questi e il Pd deve fare la sua parte anche per aiutare le parti sociali a riallacciare un filo unitario sui nodi che il referendum lascia aperti. Con la vittoria del sì, si apre una pagina nuova che deve chiarire (finora non lo si è fatto) l'elemento di scambio tra la crescita dell'utilizzo degli impianti e della produttività del lavoro e la certezza degli investimenti (visto che su 18,8 miliardi di euro del Piano Fabbrica Italia conosciamo il destino soltanto di 2,4), dei nuovi modelli da produrre, dell'occupazione da garantire e delle scelte di non delocalizzare.
Io non so quale sarà l'effetto di questo ulteriore passaggio della vicenda Fiat sul complesso delle relazioni industriali del Paese. Vedo però che anche nel nostro territorio abbiamo un fronte, una grande questione ancora aperta (parlo della Piaggio) sulla quale dobbiamo proseguire nel percorso che ci siamo dati, anche dopo il Consiglio comunale aperto svoltosi a Pontedera, e che riguarda il tema degli investimenti, del Piano industriale, del ruolo degli stabilimenti di Pontedera, dei nuovi modelli, della centralità delle meccaniche e dell'opportunità di un investimento nella logistica.
Su questa vicenda si deve sentire il peso della politica e delle istituzioni, perché essa chiama in causa tutto il nostro territorio e che non può più essere lasciato solo sulle spalle delle organizzazioni sindacali, che hanno ripreso un positivo rapporto unitario, o peggio dei lavoratori. Io credo che molto rapidamente dobbiamo ricostituire il circolo del Pd Piaggio e indotto come luogo di confronto ed elaborazione e credo anche che si debba aprire un confronto con l'azienda in tempi rapidi.
La discussione sulla Fiat ci ripropone il tema del partito: noi siamo da tempo l’unica forza che cerca di mettere al centro dell’agenda politica il fisco, i problemi del lavoro e dell’impresa, le politiche sociali, il sapere. E non siamo mai riusciti in questi due anni a bucare il muro di gomma mediatico che Berlusconi è riuscito a creare. Indubbiamente scontiamo una difficoltà di sintesi al nostro interno che fa sì che qualunque posizione assumiamo venga sommersa dal rumore delle posizioni diverse e contrastanti che vengono immediatamente espresse dall’interno stesso del nostro partito.
Ad esempio sulla questione Fiat si è sviluppato un dibattito, come è normale che avvenga. Però quello che invece credo non sia normale è il fatto di non saper arrivare una posizione di sintesi riconosciuta. Su un tema come questo la Direzione nazionale deve esprimersi definendo il proprio giudizio sui contenuti dell'intesa, sul rispetto dell'esito del referendum e sulle cose da fare ora. Invece nel Pd non funziona così su quasi tutto. Ciascun esponente si sente autorizzato ad esprimere le proprie opinioni al di fuori delle sedi appropriate dimenticando la necessità di trovare sempre e comunque una sintesi.
In queste settimane (lo ricordava Cesare Damiano) abbiamo assistito alle più svariate prese di posizione: una richiesta di congresso anticipato, poi smentita; la convocazione di una Direzione “parallela”, promossa dai cosiddetti rottamatori; l'annuncio preventivo di un voto in dissenso rispetto al Partito sul tema del biotestamento prima ancora che se ne discutesse (Beppe Fioroni). Ma come pensiamo di andare avanti così? È una follia.
Io vedo un unico modo per uscire da questa situazione. Anzitutto valorizzare di più le esperienze del territorio, penso agli amministratori locali, per rompere quel circuito impazzito e ripiegato su sé stesso che c'è nel nostro gruppo dirigente nazionale. E poi valorizzare fino in fondo il ruolo degli organismi di discussione e di decisione istituzionalmente previsti, e cioè degli organi dirigenti del nostro partito a tutti i livelli. Questi organi devono diventare per davvero le sedi in cui si discute, senza temere il pluralismo delle posizioni, e, al tempo stesso, le sedi in cui si assumono delle decisioni, unitariamente, quando si riesce a costruire una sintesi, oppure a maggioranza, che è comunque meglio di quell’inaccettabile indistinzione che deriva dalla costante ricerca di mediazioni al minimo comune denominatore. E le posizioni che restano in minoranza avranno quella tutela che lo statuto riconosce alle minoranze, ma saranno chiaramente identificabili come tali.
La sintesi è essenziale per l'azione politica di un partito pluralista ma richiede risponibilità al confronto. “Il Pd – cito di nuovo Damiano – non deve tacere il confronto, anzi lo deve ricercare. Lo scontro è benefico se porta ad una sintesi di maggioranza da tutti riconosciuta come vincolante”. Il nemico è l'ambiguità, l'indeterminatezza, la fumosità delle schermaglie, il falso unanimismo di facciata. Tutto questo opacizza il nostro profilo. Tra l'altro, sia a livello nazionale che locale, rispetto agli schieramenti congressuali abbiamo fatto un grosso e positivo passo in avanti che consenta una vera discussione di merito e non astratta. Noi abbiamo bisogno di impegnarci in una riflessione che abbia al centro non formule astratte ma temi concreti: prima della discussione sulle alleanze (estenuante quanto inutile) è necessaria quella sui contenuti. Su questo punto io credo che oltre all'importante lavoro tematico che stiamo facendo con le Assemblee nazionali (che stiamo però socializzando poco...) si dovranno istituzionalizzare e praticare anche, su alcuni temi (penso alla questione del testamento biologico) forme nuove di partecipazione come ad esempio il referendum tra gli iscritti.
Per quanto riguarda le primarie, credo che anche qui dobbiamo riflettere. La discussione sul farle o non farle mi sembra sciocca: sono nello statuto, le abbiamo inventate noi. Però dobbiamo riformarle per preservarle. Dobbiamo riflettere sulle primarie di coalizione e su come il Pd ci partecipa: non farle diventare un terreno per incursioni altrui nel nostro campo; personalmente penso che in primarie di questo tipo il candidato del Pd possa essere uno e uno solo e debba essere il frutto di una discussione vera e di forme di verifica anche estremamente impegnative tra gli iscritti.
L'esistenza delle primarie non può però diventare, dentro il partito, l'alibi per azzerare il confronto e la discussione politica e la possibilità di ricercare candidature unitarie. Non possiamo non vedere come le primarie, non solo a livello nazionale, rischiano di degenerare diventando sempre di più un fine utile solo per l'affermazione dei singoli anziché uno strumento di democrazia. Credo che con questa legge elettorale la questione delle primarie per la scelta dei candidati al Parlamento sia ineludibile, perché solo così avremo parlamentari legati al territorio e davvero rappresentativi; questo chiama in causa inoltre l'impellenza di un cambiamento della legge elettorale regionale.
La situazione politica nazionale ci impone una scelta nettissima di strategia: se è vero che quella dell’Italia è una condizione di emergenza; se è vero che i fatti tanto sconvolgenti quanto sconfortanti di questi giorni sembrano dimostrare ulteriormente che non è più possibile mantenere un’agenda politica centrata sui problemi di Berlusconi e totalmente cieca di fonte ai problemi dell’Italia; se è vero che Berlusconi non è un avversario qualsiasi, ma propone un modello di potere plebiscitario che inquina la qualità della nostra democrazia: se tutto questo è vero, dobbiamo prenderne atto e non rispondere con l’ordinaria amministrazione.
È ordinaria amministrazione continuare a dividerci tra chi preferisce alleanze a sinistra e chi guarda al centro. Anche perché entrambe le prospettive sono inadeguate ai compiti che ci si propongono e ai rischi che corriamo. Sono pienamente possibili sia scenari di elezione anticipata, di cui non dobbiamo avere alcun timore, sia soluzioni transitorie (certo più difficili dopo il voto del 14) che puntino ad un allargamento della maggioranza alle forze del Terzo Polo: questa soluzione è possibile però solo se Berlusconi si fa da parte e non è una variabile di poco conto. In ogni caso noi dovremo riuscire a presentarci come portatori degli interessi nazionali, a giocare parallelamente con intelligenza, proprio perché lo spazio di iniziativa politica e parlamentare per le opposizioni è infinitamente maggiore dopo il voto di dicembre sulla sfiducia.
Da oggi intanto dobbiamo rispondere a quel richiamo alla mobilitazione fatto dal segretario Bersani: 10.000 gazebo, 10 milioni di firme per dire basta, per chiedergli di andarsene. Sono maturi i tempi per chiamare i cittadini e le forze politiche ad una proposta di unità nazionale: dobbiamo farla, abbiamo il dovere di farla, e di vedere chi ci sta. Non credo che questa proposta sia in contrasto con la strategia del cosiddetto “Nuovo Ulivo”, perché, a mio avviso, noi dovremmo prima costruire una solida alleanza di centrosinistra e dopo cercare di allargarla a quelle forze politiche e sociali che vogliono uscire dall'emergenza democratica. Partendo da temi concreti e da un'operazione di chiarezza con i nostro alleati naturali, Italia dei Valori e Sel.
Prima di qualsiasi discorso sulla leadership e sul modo di sceglierla bisogna sciogliere un nodo di strategia. Perché dal riconoscimento del carattere di emergenza della situazione discendono infatti precise conseguenze sulla dimensione e la natura degli schieramenti che si intendono costruire. E siccome noi siamo un soggetto politico e non un campo aperto alle incursioni e alle conquiste di chicchessia, prima si concorda con noi un programma, su questa base si costruisce una coalizione, poi si discute della leadership, da selezionare anche eventualmente con lo strumento delle primarie. Questo vale a livello nazionale come a livello locale: è inaccettabile pensare che prima si facciano le primarie, poi, a seconda di chi vince, si decide se coalizzarsi o meno e poi chi vince detta le condizioni del programma e della coalizione.
Il programma deve per forza essere innovativo. Essere oggi la forza politica che mette al centro il tema dell’eguaglianza vuol dire affrontare i temi della riforma del welfare, degli ammortizzatori sociali, delle politiche per il lavoro e della contrattazione in termini che non possono assolutamente essere la ripetizione di quello che c’era scritto nel programma dell’Unione. Vendola (figuriamoci Di Pietro) non dice nulla sui nodi programmatici, non per incapacità, ma perché se dicesse qualcosa, o perderebbe metà dei suoi fans o si precluderebbe la possibilità di qualsiasi alleanza.
Per questo si limita a ripetere in modo stanco la propria preghiera laica basata sull'invocazione delle elezioni anticipate e delle primarie come soluzione miracolistica ai problemi degli italiani. Qui c'è un punto che riguarda anche le elezioni amministrative nella nostra provincia. Noi dobbiamo prima di tutto pretendere chiarezza sui programmi, coerenza per la definizione delle alleanze con le linee strategiche di governo che ci siamo dati in questi anni, e un giudizio chiaro sulle esperienze amministrative uscenti: ci vuole un giudizio politico netto e non l'idea di un eterno nuovo inizio.
Chiedo ai segretari delle Unioni comunali davvero grande attenzione su questo, così come chiedo a tutti, a prescindere dalla scelta fatta localmente di svolgere le primarie o meno, grande solidarietà ed uno spirito profondamente unitario; nei Comuni dove ancora siamo più indietro nella definizione delle candidature chiedo uno sforzo a ricercare soluzioni unitarie privilegiando soluzioni condivise, senza arrendersi in modo notarile alla inesorabilità delle primarie.
Questo è proprio il momento in cui si deve investire al massimo sul ruolo e l’identità del Partito Democratico, sul suo profilo di forza non moderata ma riformista, sul suo ruolo di cerniera tra la sinistra e una più ampia area di forze politiche e di elettori interessati alla ripresa della crescita e alla salvaguardia della condizione di democrazia occidentale, sulla sua capacità di rappresentare, insieme al mondo del lavoro in tutte le sue componenti, settori ampi del mondo dell’impresa, delle professioni e della cultura.
Senza alcuna pretesa di autosufficienza, ma anche senza alcuna subalternità, perché è con noi, che siamo la forza più grande dell’opposizione, che si deve discutere delle condizioni politiche e programmatiche di un'alternativa, e senza imporre, o accettare insuperabili preclusioni e giochi di reciproca esclusione.
Per questo anche a Pisa proponiamo due grandi terreni di iniziativa e di lavoro a tutte le nostre organizzazioni.
Primo: una prospettiva di crescita fondata sulla qualità e l’innovazione delle produzioni, sull’equità e l’inclusione sociale, sull’affermazione dei diritti dei lavoratori anche nelle nuove condizioni di mercato, cercando di essere noi il soggetto che riesce a tenere insieme il mondo del lavoro e dell'impresa, che sono le forze davvero produttive. Il primo appuntamento è la Conferenza regionale delle lavoratrici e dei lavoratori di Pontedera del 5 febbraio.
Il secondo punto d'iniziativa è una politica per dare rappresentanza e inclusione sociale a una generazione che oggi è esclusa da tutti i meccanismi di protezione sociale e che manifesta in varie forme un'insofferenza e un disagio profondo cui noi dobbiamo dare uno sbocco politico. Forti del monito di Napolitano nel messaggio di fine anno e dell'intuizione che la Regione ha avuto con il cosiddetto “Progetto Giovani”. Su questo c'è bisogno di una iniziativa forte insieme ai Giovani Democratici.
Voglio in ultimo soffermarmi sulla situazione di grande difficoltà degli Enti locali: la legge Finanziaria e poi il Milleproroghe hanno ulteriormente aggravato una condizione di difficoltà che già avevamo denunciato al Congresso; c'è difficoltà a chiudere i bilanci dei Comuni, strozzati dal Governo a chiacchiere più federalista della storia, difficoltà con cui si inquina il rapporto tra sindaci ed elettori esponendo i primi alle pressioni crescenti delle proprie collettività, lasciandoli però privi di strumenti di intervento.
Su questo abbiamo lavorato molto, sia in termini di iniziativa pubblica che di discussione interna, sulle finalità che ci poniamo e le scelte dolorose che siamo chiamati a compiere: è deludente che qualcuno pensi di aggirare questi problemi instaurando un rapporto privilegiato con il presidente Berlusconi, eludendo il tema politico più generale e una questione minima di solidarietà.
Stiamo cominciando con il presidente ed il gruppo una discussione sul bilancio della Provincia, messa anch'essa a dura prova da tagli pesanti e da una politica di investimenti forte che abbiamo fatto negli anni; in condizioni come queste è necessario, come ha fatto la Regione, fare scelte in cui sia chiara la strategia di fondo, proprio perché le risorse sono sempre meno.
Nel gruppo abbiamo cominciato a discutere di alcune priorità:
1)Viabilità, infrastrutture, salvaguardia del territorio,
2)Edilizia scolastica,
3)Cultura e teatri,
4)Sviluppo economico e lavoro.
Il presidente si è giustamente posto l'obiettivo di trovare risorse nuove, attraverso la lotta all'evasione e la valorizzazione del patrimonio; penso che si debbano anche cercare risparmi negli Enti strumentali e nella possibilità di valorizzazione del personale interno: seguendo la linea di sobrietà e rigore tracciata dalla Regione Toscana.
Credo che si debba anche proseguire sulla strada delle gestioni associate e giocare la sfida delle Unioni dei Comuni cominciando a ragionarne seriamente nelle diverse zone della Provincia, anche alla luce delle scelte fatte dalla Regione con il bilancio.
A noi non deve far paura questa sfida, così come quella di cui si sta discutendo da un po' di una maggiore integrazione tra gli scali aeroportuali toscani.
Primo: perché la mole di investimenti messi in campo da Regione, Enti locali e dalla stessa SAT dimostrano nei fatti la forza della nostra iniziativa ed il sostegno concreto allo scalo pisano.
Secondo: perché le scelte dell'attuale management e del Patto di Sindacato che governano Sat hanno portato Pisa lì dove è oggi: una realtà da oltre 4 milioni di passeggeri, capace di accumulare un enorme vantaggio competitivo che peserà nei passaggi successivi e che è confermato dal Piano di investimenti del Galilei.
Terzo: l'adeguamento di Peretola è un'esigenza naturale, dobbiamo evitare che uno scalo che con quell'adeguamento acquisirebbe maggiore competitività, costruisca (seguendo l'interesse dei soci privati) una più stretta alleanza con Bologna spostando il baricentro del traffico aereo.
Quarto: la scelta dell'integrazione è quella che può garantire allo scalo pisano e al nostro territorio un futuro nel lungo periodo ed è una sfida che dobbiamo raccogliere perché ha una sua logica ed una sua forza industriale e non può essere affrontata con logiche di campanile. Di questo, naturalmente, continueremo a discuterne anche nella Direzione provinciale.
Noi dobbiamo essere quell'avanguardia democratica di cui oggi il Paese ha bisogno; dobbiamo lavorare per il Paese facendo le cose ho indicato e lavorare su di noi:
1) Sul tesseramento per l'anno 2011 e su una campagna seria di autofinanziamento;
2) Sulla convocazione di assemblee degli iscritti dei Circoli e degli elettori sulla situazione politica nazionale e su quelle priorità che ho provato a indicare;
3) Sulla costituzione della Conferenza delle donne;
4) Sul rafforzamento e il radicamento dei Giovani Democratici;
5) Sulla valorizzazione dei nostri Circoli e sulla costituzione di specifici Forum tematici;
6) Sulla mobilitazione proposta in modo straordinario dal segretario nazionale nelle prossime settimane.
Concludo ringraziandovi, ringraziando i componenti dell'Esecutivo provinciale e i segretari delle Unioni comunali per questi primi mesi di lavoro insieme
Nessun commento:
Posta un commento