giovedì 30 dicembre 2010

Una fotografia del nostro Paese. Che fa molto male! - AUGURI ITALIA

Care amiche/cari amici,

la fine di ogni anno è un momento di bilanci. Per il nostro Paese purtroppo il bilancio è molto negativo. Abbiamo perso posizioni su posizioni in tutte le classifiche immaginabili: dalla ricchezza per abitante al numero degli occupati, dalle prospettive dei giovani agli investimenti per la ricerca, dall’andamento dei consumi all’andamento del debito pubblico, al divario nord-sud, all’evasione fiscale, al peso della burocrazia, alla diffusione di corruzione e illegalità.

Non è solo un problema di statistiche (come sottolinea chiaramente Galli della Loggia nell’ottimo articolo che riporto nel resto del post). Ma soprattutto di futuro. La nostra generazione è la prima dal dopoguerra che non riesce a pensare un futuro migliore per i propri figli. La nostra generazione è quella a cui viene chiesto di piu dal punto di vista contributivo e che avrà meno nel momento in cui andrà in pensione.

Una generazione che ha investito tanto nella propria formazione e che è entrata nel mercato del lavoro (che va completamente rivisto e riadattato ai cambiamenti attuali) nel momento di maggiore crisi.

Chi governa (al netto delle congiunture internazionali) ha le maggiori responsabilità. Da quindici anni non c’è una chiara idea di Paese. Di cosa può rappresentare l’Italia in un sistema globale. Abbiamo contemporaneamente le tasse e l’evasione fiscale più alte d’Europa, mentre gli operai ricevono i salari piu bassi. Da diversi anni i grandi gruppi internazionali non vengono ad investire in Italia e le grandi innovazioni tecnologiche che i cervelli italiani sfornano attualmente vengono “sfruttate economicamente” fuori dal nostro Paese.

Questo è solo un pezzo di una fotografia a tinte fosche. Una fotografia di un Paese in rapido declino.

Il PD deve avere il coraggio di leggere con attenzione questa fotografia e fare proposte innovative e che vanno contro il conservativismo che blocca la crescita. Poche proposte chiare con cui lanciare un messaggio di fiducia e cambiamento per costruire un progetto di rilancio dell’Italia.

Partendo dalla riscrittura del patto fiscale, pilastro di un nuovo patto sociale, per tagliare le tasse su lavoratori, professionisti ed imprese, per l’equità e lo sviluppo sostenibile. Passando all’eliminazione dell’Irap sul costo del lavoro per le neoassunzioni di giovani e donne con contratto a tempo indeterminato e alla scelta dell’economia verde come mezzo per rilanciare su basi nuove e più solide l’economia che non può tornare su precedenti modelli di crescita alimentati a debito e con un consumo insostenibile di risorse naturali. Per finire con fare proposte chiare sulla Giustizia ponendo la Costituzione repubblicana al centro delle nostre scelte.

Auguri a voi ed alle vostre famiglie per un 2011 che guardi al futuro. Ad un futuro migliore!

Auguri all’Italia

Antonio


Un disperato qualunquismo

DITE LA VERITA' AL PAESE

Un disperato qualunquismo

Non vanno bene le cose per l'Italia. Prima che ce lo dicano le statistiche - comunicandoci per esempio un dato lugubre: che nel 2010 il reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali inferiore a quello del 2000 - ce lo dice una sensazione che ormai sta dentro ciascuno di noi e ogni giorno si rafforza.

Basta che ci guardiamo intorno per scorgere un panorama sconfortante: abbiamo un sistema d'istruzione dal rendimento assai basso; una burocrazia sia centrale che locale pletorica e inefficientissima; una giustizia tardigrada e approssimativa; una delinquenza organizzata che altrove non ha eguali; le nostre grandi città, con le periferie tra le più brutte del mondo, sono largamente invivibili e quasi sempre prive di trasporti urbani moderni (metropolitane); la rete stradale e autostradale è largamente inadeguata e quella ferroviaria, appena ci si allontana dall'Alta velocità, è da Terzo mondo; la rete degli acquedotti è un colabrodo; il nostro paesaggio è sconvolto da frane e alluvioni rovinose ad ogni pioggia intensa, mentre musei, siti archeologici e biblioteche versano in condizioni semplicemente penose. Per finire, tutto ciò che è pubblico, dai concorsi agli appalti, è preda di una corruzione capillare e indomabile. C'è poi la nostra condizione economica: abbiamo contemporaneamente le tasse e l'evasione fiscale fra le più alte d'Europa, mentre gli operai italiani ricevono salari ben più bassi della media dell'area-euro; il nostro sistema pensionistico è fra i più costosi d'Europa malgrado le numerose riforme già fatte e siamo strangolati da un debito pubblico il pagamento dei cui interessi c'impedisce d'intraprendere qualunque politica di sviluppo. Ancora: nessuno dall'estero viene a fare nuovi investimenti in Italia, ma gruppi stranieri mettono gli occhi (e sempre più spesso le mani) su quanto resta di meglio del nostro apparato economico-produttivo; nel frattempo il processo di deindustrializzazione non si arresta e la disoccupazione, specie giovanile, resta assai alta.

Nessuno di questi mali ha un'origine recente, lo sappiamo bene. Non paghiamo cioè per errori di oggi o di ieri: o almeno non solo per quelli. È piuttosto un intero passato, il nostro passato, che ci sta presentando il conto. Oggi cominciamo a capire, infatti, che qualche tempo fa - quando? nel '92-'93? un decennio dopo con l'adozione dell'euro? - si è chiuso un lungo capitolo della nostra storia. Nel quale siamo diventati sì una società moderna (qualunque cosa significhi questa parola), ma pagando prezzi sempre più elevati, accendendo ipoteche sempre più rischiose sul futuro, chiudendo gli occhi davanti ad ogni problema, rinviando ed eludendo. Prezzi, stratagemmi, rinvii, che negli Anni 70-80 hanno cominciato a trasformarsi in quel cappio al collo che oggi sta lentamente strangolando il Paese.

Lo sappiamo che le cose stanno così. Ce ne accorgiamo ogni giorno che l'Italia perde colpi, non ha alcuna idea di sé e del suo futuro. Ma ci limitiamo a pensarlo tra noi e noi, a confidarcelo nelle conversazioni private. Avvertiamo con chiarezza che avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci specchiare finalmente e collettivamente nella verità. Che ci servirebbero terapie radicali. Invece sulla scena italiana continua a non accadere nulla di tutto ciò.

Chi dovrebbe parlare resta in silenzio. Resta in silenzio il discorso pubblico della società italiana su se stessa, consegnato ad una miseria che diviene ogni giorno meno sopportabile. Ma soprattutto resta in silenzio la politica, divisa tra lo sciropposo ottimismo di Berlusconi, il suo patetico «ghe pensi mi» da un lato, e la vacuità dei suoi oppositori dall'altro. Bersani, La Russa, Bossi, Fini, Bondi, Vendola, Verdini, Di Pietro, Casini, e chi più ne ha più ne metta credono di parlare al Paese con le loro dichiarazioni, le loro interviste, i loro attacchi a questo o a quello, i loro progetti di alleanze, di controalleanze e di governi: non sanno che in realtà se ne stanno guadagnando solo un disprezzo crescente, ne stanno solo accrescendo la distanza dal loro traballante palcoscenico. Sempre più, infatti, la loro produzione quotidiana di parole suona eguale a se stessa: ripetitiva, irreale, ridicola. Mai una volta che uno di essi proponga al Paese una soluzione concreta per qualche problema concreto: chessò, come eliminare la spazzatura a Napoli, come attrarre investimenti esteri in Italia, come finire la Salerno-Reggio Calabria prima del 3000, come iniziare a risanare il debito pubblico. Mai: anche se a loro scusante va detto che nel solcare quotidianamente l'oceano del nulla sono aiutati da un sistema dell'informazione anch'esso perlopiù perduto dietro la chiacchiera, il «retroscena», il titolo orribilmente confidenziale su «Tonino» o «Gianfri», il mortifero articolo di «costume».

Nelle pagine e pagine dedicate dai giornali alla politica diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso, scorgere qualche spicchio di realtà tra i fumi dell'aria fritta. È così che alla fine siamo condannati a questo necessario, disperato, qualunquismo. Agli italiani non sta restando altro. Disperato perché frutto dell'attesa vana che finalmente da dove può e deve, cioè dalla politica, venga una parola di verità sul nostro oggi e sul nostro ieri. Una parola che non ci esorti - e a che cosa poi? A credere in un ennesimo partito, in un'ennesima combinazione governativa? - ma che ci sfidi: ricordandoci gli errori che abbiamo tutti commesso, i sacrifici che sono ora necessari, le speranze che ancora possiamo avere. Per l'Italia è forse iniziata una corsa contro il tempo, ma non è affatto sicuro che ce ne resti ancora molto.

Ernesto Galli della Loggia

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